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  • Immagine del redattoreShirll Weirdrow

L'Ombra di Drago - Capitolo Secondo

Slen si risvegliò in una piccola abetaia. L’aria attorno a lui era quella fredda e pungente della prima mattina, quando il tepore del sole non si è ancora fatto sentire. Aveva la testa appoggiata a una radice, come su di un rozzo cuscino, e il suo materasso era fatto di aghi caduti. Guardando in alto attraverso i rami degli alberi, vide un cielo sereno e limpido che preannunciava una bella giornata. Si mise a sedere, appoggiando la schiena al tronco dell’albero sotto cui aveva trascorso la notte. Aveva la mente intorpidita come se fosse rimasto a letto troppo e ora non riuscisse più a svegliarsi completamente. Non gli sembrava di aver dormito a lungo, ma per il momento non ricordava molto di quanto era accaduto il giorno prima. Attorno a lui gli alberi radi e spogli, dai rami intricati, non avevano la minima somiglianza con quelli alti e maestosi della Foresta della Luna. Erano alberi normali, in qualche modo rassicuranti, e gli ricordavano quelli che crescevano nelle zone più elevate dell’isola. Un’alta parete di roccia si alzava proprio alle sue spalle, salendo verticale per molte decine di metri e impedendo ai raggi del sole di illuminare e scaldare il boschetto. Ascoltando i rumori che lo circondavano udì il rombo di una cascata e suppose che ci fosse un fiume nelle vicinanze.

C’era una pace quasi idilliaca e Slen l’assaporò a pieni polmoni prima di decidersi a esplorare la zona. Ascoltò il canto degli uccelli che volavano di ramo in ramo e quello del vento che suonava le fronde. Di quando in quando il vento aumentava d’intensità, con folate potenti che si confondevano con il rumore della cascata, poi d’improvviso diminuiva e tornava alle sue melodie tranquille. Oltre ai rumori della natura, non si sentiva nessun suono che indicasse la presenza di anima viva nelle vicinanze.

Lentamente s’incamminò oltre il boschetto, camminando sul tappeto di aghi con un rumore di passi attutiti. Quando fu uscito dal bosco, si rese conto di trovarsi in una piccola valle cinta da alte pareti di roccia. La cascata di cui aveva sentito il rombo si gettava da una di queste, trasformandosi in un fiume che percorreva la valle, dividendola a metà, per poi scomparire in un’oscura voragine alla base della parete opposta. Ai piedi delle pareti crescevano abeti e larici che andavano diradandosi a mano a mano che si avvicinavano al fiume, lasciando il posto a un prato costellato di fiori variopinti.

La valle non sembrava del tutto isolata, poiché un sentiero di pietre costeggiava il fiume e un ponte di legno permetteva di attraversarlo senza bagnarsi. Il sentiero era ombreggiato da un filare di salici piangenti che gettavano i loro rami nell’acqua. Oltre a ciò non vi erano segni di vita, né altre costruzioni indicavano che quella valle fosse in effetti abitata.

“A Doria piacerebbe molto questo luogo, è così tranquillo. Se fosse qui, sarebbe felicissima…” Ma quando pensò questo, Slen fu colto da un senso di smarrimento.

I ricordi della sera precedente riaffiorarono in un attimo: la Festa della Luna, Rune, le parole della fanciulla… Avrebbero dovuto incontrarsi tutti insieme la mattina dopo, aveva detto. E allora perché Drom e Doria non erano lì con lui? Dov’erano adesso? Rune li aveva forse ingannati? Li aveva divisi per divertirsi alle loro spalle? Queste e molte altre domande turbinarono nella sua testa.

Non fu facile calmare il senso di panico che lo stava per sopraffare, ma si costrinse a osservare meglio ciò che aveva attorno, senza tralasciare alcun dettaglio. Non riuscì a scorgere nulla, nessun movimento, nessuna figura umana. Allora provò a chiamare i nomi degli amici con quanta voce aveva in gola, ma l’unica risposta che ebbe fu l’eco delle proprie parole che rimbalzava da una parete all’altra.

Avrebbe voluto convincersi che non lo avessero sentito o che il vento avesse allontanato le loro voci da lui, ma sapeva che non poteva essere così. La valle era piccola e l’eco dei suoi richiami si era propagato molto lontano.

Senza cadere nello sconforto, decise che la prima cosa da fare era tornare sui propri passi, là dove si era svegliato.

Non si era allontanato troppo, quindi gli fu facile ritrovare il punto dove aveva dormito. Una volta lì, ispezionò il terreno cercando segni della presenza di qualcun altro, ma non ebbe fortuna.

Il suolo era morbido, cosparso di aghi secchi che non conservavano le tracce di chi lo aveva calpestato, mentre il sottobosco era rado e spoglio. C’erano pochi cespugli di bacche e rari alberi di ghiande, mentre abeti e larici erano per lo più adulti e i loro rami non ostacolavano la vista. Non potevano esserci dubbi: era solo.

Il vento soffiò attorno al giovane avventuriero, scompigliandone i capelli, e poi calò quasi del tutto lasciando un lungo periodo d’immobilità nell’aria. Lo sguardo di Slen rimase fisso sul suolo come se da lì potesse spuntare una risposta improvvisa, o forse solo nel disperato tentativo di calmare un senso di disperazione crescente.

Il vento si alzò e calò altre due volte prima che il ragazzo muovesse lo sguardo e lo spostasse oltre il bosco, sui prati pendenti che si intravedevano tra i tronchi lisci.

La valle era piccola, ma vi erano angoli nascosti. Era impossibile vedere attraverso gli alberi fino ai pedi delle pareti rocciose e si notavano delle rientranze nella roccia che costituivano possibili nascondigli. Esplorare tutto il luogo avrebbe richiesto tempo, ma Slen non aveva intenzione di andarsene senza avere la certezza che i due compagni non si trovassero là.

All’inizio della sua ricerca percorse il margine inferiore del bosco, laddove gli alberi erano più radi e gli aghi delle conifere lasciavano spazio ai primi ciuffi d’erba. A intervalli regolari continuava a chiamare i nomi dei compagni, ascoltando ogni rumore che potesse essere una risposta. Esplorò con attenzione la zona, entrando di quando in quando tra gli alberi per risalire il leggero declivio fino alla base del dirupo. Ma non ottenne risposta né trovò traccia della presenza degli amici.

Mano a mano che si avvicinava alla cascata si rese conto che il fiume era molto più largo e profondo di quanto non gli fosse sembrato. La cascata aveva scavato la roccia e ora scendeva all’interno di un canalone. L’acqua che cadeva dalla sommità del dirupo si andava a infrangere con forza sulle rocce sottostanti, dando vita al fiume. In quel tratto il sentiero di pietre si trovava sulla riva opposta rispetto a lui. Da lontano al ragazzo parve che ci fosse qualcosa che non andava, tuttavia non riuscì a capire cosa fosse e alla fine lasciò perdere.

Il sole stava iniziando a comparire da oltre le pareti. Era passata gran parte della mattinata e Slen iniziava ad avere appetito. Il giorno prima aveva mangiato solo un po’ di carne salata in tutta fretta. Nella concitazione della fuga e poi nel bosco dove si erano persi, non avevano pensato al cibo e ora sentiva che le forze iniziavano ad abbandonarlo.

Gli restava da esplorare ancora metà della valle, ma prima doveva mettere qualcosa nello stomaco se non voleva perdere la concentrazione e crollare. Nel fiume non c’erano pesci e non aveva visto nessun animale, a parte gli uccelli. La valle doveva essere abitata anche da scoiattoli, a giudicare dalla quantità di pigne rosicchiate abbandonata sotto gli alberi, ma sarebbe stato difficile catturarne uno. Dopo aver riflettuto per un po’ dovette ammettere che tutto ciò che poteva mangiare erano le bacche e le ghiande che crescevano tra gli alberi e forse qualche radice. Mirtilli e lamponi non erano un gran pranzo, ma non aveva nulla di meglio. Trovò anche delle fragole di bosco e un albero di nocciole, ma null’altro. Ne raccolse più che poté, poi uscì all’aperto e si sedette a mangiare.

Mentre consumava quel pasto frugale, osservò con attenzione l’altra parte della valle. Ormai era passato troppo tempo e le probabilità che i due principi fossero addormentati da qualche parte nei boschi erano esigue. Se erano invece svegli, avrebbero certamente risposto ai suoi richiami. Questo lasciava solo due possibilità: o non si trovavano lì, oppure erano prigionieri e impossibilitati a rispondere. Cosa lo preoccupasse di meno, non sapeva dirlo.

Si sentiva stupido per essersi fidato di Rune, ma anche se non lo avesse fatto, cosa sarebbe cambiato? Il suo sguardo si posò sulle bacche che teneva in mano e poi tornò a spaziare sul paesaggio che aveva dinnanzi, chiuso da ogni parte come una gabbia opprimente. Si domandò se fare delle scelte diverse avrebbe cambiato lo svolgersi degli eventi.

Dopo un po’ scosse la testa, decidendo che non aveva importanza, perché restare a rimuginare sul passato non lo avrebbe aiutato a uscire da quella situazione. Quando si alzò aveva uno sguardo determinato negli occhi, lo sguardo di chi è pronto a non arrendersi di fronte a nulla.

Riprese a cercare con maggiore attenzione. L’erba, per esempio, era alta e dove passava rimaneva una scia di steli piegati e sciupati, ma per quanto poté constatare su entrambe le sponde del fiume, sul prato fiorito c’era solo la traccia del suo passaggio, come se nessun altra creatura vi avesse mai messo piede. Senza scoraggiarsi si avvicinò agli alberi che crescevano dalla parte opposta della valle e ricominciò a cercare qualsiasi cosa potesse sembrare utile, ripetendo in modo meccanico azioni già eseguite durante la mattina.

Quando fu troppo buio per continuare, dovette rassegnarsi: i due principi non erano lì, né addormentati né tenuti prigionieri. Stanco e affamato raccolse altre bacche e cenò in quel modo, seduto sotto un albero guardando le stelle che comparivano nella piccola porzione di cielo.

Mentre pensava a cosa potesse essere accaduto a Doria, le guance gli si rigarono di lacrime, poi la stanchezza ebbe il sopravvento e quasi subito cadde in un sonno profondo e senza sogni.

Si risvegliò la mattina presto, quando il cielo era ancora scuro. Era abbastanza riposato e dopo essersi rinfrescato al fiume decise che la prima cosa da fare era cercare Rune. La ragazza sembrava conoscere bene la Foresta della Luna e con un po’ di fortuna avrebbe potuto sapere dov’erano i suoi compagni, sempre che non fosse lei ad averli rapiti. Purtroppo Slen non aveva idea di dove cercarla. Non sapeva nemmeno se lui stesso in quel momento si trovasse sull’isola di Aderan o da qualche parte nel continente principale.

Senza perdere tempo, si avvicinò al ponte e al sentiero tra i salici. Non c’erano indicazioni di alcun genere e non era facile decidere quale fosse la via migliore. Alla sua destra il fiume correva veloce verso la voragine in cui sarebbe scomparso, alla sinistra invece c’era la cascata. Una direzione valeva l’altra e il ragazzo s’incamminò a sinistra. Solo quando ebbe raggiunto la cascata capì cosa aveva notato di strano il giorno prima.

Il sentiero si fermava sull’argine e alcuni scalini in pietra scendevano fino all’acqua, scomparendo tra gli spruzzi. Forse si trattava di un attracco per barche, anche se non c’erano pali o ganci a cui ormeggiarle. Il sentiero, comunque, moriva lì e non c’erano nelle vicinanze passaggi o aperture. Perplesso tornò sui propri passi per dirigersi alla parete opposta, certo di trovare lì quell’uscita a cui il sentiero doveva sicuramente condurre. Anche questa volta fu deluso: il percorso terminava all’improvviso, lasciando il posto a degli scalini identici agli altri che scendevano fino al fiume e si gettavano nel vuoto nero della voragine.

Chiunque avesse tracciato quella via doveva essere una persona ben strana, ma Slen, deciso a non lasciarsi scoraggiare, accolse quella stranezza con un sospiro e un fremito di frustrazione. Con sguardo attento si mise a osservare le pareti che circondavano la valle, ma dopo un po’ fu colto da un senso di vertigine. Le pareti sembravano un tutt’uno tra loro, senza aperture o passaggi di alcun genere.

Lo sgomento si dipinse sul suo volto e vi rimase a lungo mentre girava su sé stesso a bocca spalancata, incredulo. Per la prima volta si rendeva conto che durante la ricerca del giorno prima non aveva visto né altri sentieri né passaggi che potessero condurre fuori dalla valle.

Scosse il capo, cercando di schiarirsi la mente per ragionare con freddezza.

Era sicuro che un’uscita dovesse esserci, forse non era visibile da dove si trovava, forse era stata celata, ma doveva esserci. L’unica cosa che doveva fare era stare calmo e cercarla. Ponderò che, se vi erano un sentiero e un ponte, questo significava che qualcuno frequentava quel posto, quindi doveva esistere un modo per entrare e uscire di là. Rimanendo dove si trovava non era facile individuare qualcosa di utile, così si avviò verso la base delle pareti.

Passò gran parte della mattinata smuovendo pietre, frugando dietro ai cespugli, ispezionando ogni ansa, ma non trovò vie d’uscita. Non vi erano fenditure, grotte o aperture di alcun genere.

Nuovamente abbattuto, si lasciò scivolare a terra, all’ombra di un abete proprio davanti all’ultima ansa che aveva controllato. Non poté evitare che i pensieri scivolassero nella malinconia e ripensò alla propria vita, a tutti i suoi progetti, alle cose che avrebbe voluto fare, a Doria. Invece avrebbe finito i suoi giorni lì, in quella valle senza uscite, in quella trappola da cui non poteva scappare. Non avrebbe più rivisto la sua amata, né avrebbe mai saputo cosa le era accaduto, avrebbe solo potuto aspettare la fine, senza nessuna possibilità di cambiare le cose. E tutto questo perché si era fidato di quella ragazza dal volto tanto buono, ma dal cuore altrettanto malvagio. Strinse i pugni con rabbia e sferrò un colpo nervoso all’albero sotto cui si era seduto, poi affondò il volto tra le mani, incapace di ricacciare indietro lo sconforto.

Rimase così per un tempo indefinito, non riuscendo a capire se provava più rabbia o disperazione.

Erano trascorse parecchie ore da quando si era svegliato e il sole stava quasi raggiungendo la sommità della parete dietro la quale sarebbe ben presto scomparso. Molto probabilmente era quasi mezzogiorno. Slen non mangiava in modo decente da quasi due giorni e la fame stava iniziando a farsi sentire di nuovo. Nutrendosi solo di bacche e nocciole non avrebbe resistito ancora a lungo. Stava ormai perdendo ogni speranza quando un piccolo tonfo attirò la sua attenzione. Messo in allerta, il ragazzo avvicinò d’istinto la mano all’impugnatura della spada. L’unica cosa che vide fu una pigna che rotolava lentamente sul tappeto di aghi, vicino ad altre pigne rosicchiate. Il suo sguardo si spostò verso l’alto: un piccolo scoiattolo osservava da un ramo il suo tesoro caduto. Quando si accorse che Slen lo stava fissando, l’animaletto ne ricambiò lo sguardo poi, timido, corse via arrampicandosi sull’albero e saltando verso un abete vicino.

«Magari sapessi arrampicarmi come te…» Lo sguardo di Slen si spostò sulle alte pareti scoscese e fu allora che si decise. Scalare quelle rocce era un’impresa pazzesca, ma in fondo non aveva nulla da perdere. Avrebbe almeno fatto un tentativo e non sarebbe rimasto ad attendere la fine passivamente.

Cercò un luogo dove appigli per mani e piedi fossero abbondanti e iniziò l’arrampicata. Non era facile, ma dopo parecchi tentativi credette di capire come muoversi, dove mettere le mani e come riconoscere la via migliore.

Più di una volta rischiò di cadere. La roccia era friabile, gli franava sotto i piedi e sotto le mani, risultava scivolosa sotto la sua presa insicura. Ciò nonostante riuscì a raggiungere la metà della parete. Le gambe avrebbero voluto tremargli, ma Slen tentava di non pensare a dove si trovasse e soprattutto cercava di guardare solo verso l’alto. Era stanco e non aveva modo di riposarsi, le dita gli dolevano e i muscoli delle braccia iniziavano ad essere affaticati, ma non poteva far altro che andare avanti.

All’improvviso udì uno strillo acuto subito seguito dallo sbattere di enormi ali. Con la coda dell’occhio vide un’aquila gigantesca che puntava verso di lui con gli artigli protesi. In un attimo l’uccello gli fu addosso. Il ragazzo cercò di stringersi contro la parete, ma non aveva sufficiente spazio per mettersi al sicuro. D’istinto alzò un braccio per proteggersi il volto. L’aquila fu su di lui l’istante successivo e l’urto degli artigli, unito allo spostamento d’aria provocato dalle grandi ali gli fecero perdere la presa.

Fu un volo eterno e immediato allo stesso tempo.

Urlò cadendo e l’impatto con il suolo lo lasciò senza fiato. Era atterrato su di un cespuglio di mirtilli e poi era scivolato sul terreno in pendenza prima di fermarsi contro un albero.

Rimase immobile, ascoltando i rumori della valle e tra essi il battito del proprio cuore. Era vivo. Era impossibile eppure vero, si era salvato da un volo di decine di metri. Per un po’ non ebbe il coraggio di provare a muoversi.

Quando finalmente fece forza sulle braccia per sollevarsi a sedere scoprì di essere tutto intero. Si sedette, ancora sconvolto, e iniziò a esaminare le proprie condizioni: i rami degli alberi più vicini alla parete, il cespuglio e le rocce gli avevano graffiato il volto e ogni centimetro di pelle scoperta, strappandogli in qualche punto anche i vestiti, ma non aveva nessuna ferita più grave di un’escoriazione o una contusione.

Alzò lo sguardo al cielo e vide l’enorme uccello che continuava a volteggiare sopra la sua testa, un’enorme macchia rossa che descriveva minacciosi cerchi nell’aria tersa.

Non aveva mai visto un uccello simile.

Sapeva di essere stato fortunato, ma forse non c’entrava solo la buona sorte. Negli ultimi metri aveva avuto l’impressione che qualcosa rallentasse la velocità della caduta. Non riusciva a capire cosa fosse stato, ma la sensazione era quella di passare attraverso strati d’aria più spessa o di finire su un covone di fieno invisibile. Un covone alto almeno dieci metri.

Si sollevò in piedi. Aveva ancora le ginocchia che tremavano per la paura, ma era determinato a riprovare ancora e ancora, fino a quando non si fosse spezzato l’osso del collo. L’alternativa era di morire di inedia lì, un’alternativa cui non si sarebbe arreso. Pensò che l’aquila avesse lassù il suo nido e che l’avesse attaccato per difenderlo, così per il nuovo tentativo scelse un luogo molto distante dal primo. Non servì a nulla, perché il rapace tornò ancora all’attacco non appena Slen ebbe superato la metà dell’arrampicata. Anche questa volta il ragazzo non riuscì a mantenere la presa e anche questa volta qualcosa attutì la sua caduta.

Quella stranezza, invece di farlo preoccupare, lo fece sentire più sicuro, forse troppo. Tentò e ritentò più volte, ma sempre l’aquila si precipitava su di lui e lo faceva cadere e ogni volta lui usciva dalla caduta senza ferite gravi.

Se non fosse stato per la stanchezza, avrebbe cercato di arrampicarsi all’infinito.

Quando decise di fare un ultimo tentativo la breve giornata della valle stava ormai volgendo al termine e i morsi della fame stavano divorando le sue ultime forze. In più ogni muscolo gli doleva, le dita erano rovinate e graffiate, e le braccia e tutto il resto del corpo erano cosparsi di lividi.

Osservò il cielo e la cima della parete da cui era caduto l’ultima volta. L’aquila era ancora lassù che volteggiava minacciosa, pronta a interrompere per l’ennesima volta il suo tentativo di fuga. Qualunque posizione scegliesse, per quanto lontana dal rapace, sembrava che l’uccello fosse a guardia di tutta la valle. Sospirò, ma testardamente si apprestò ad affrontare l’ultima arrampicata prima di coricarsi a dormire.

Questa volta accadde qualcosa d’imprevisto. L’aquila scese subito, prima ancora che lui mettesse mano sulla roccia, e planò fino a posarsi su un masso da cui poteva sovrastarlo. Era un’aquila reale di dimensioni notevoli, molto più grande di qualsiasi aquila avesse mai visto e lo fissava con sguardo intenso e intelligente.

Slen non sentì il bisogno di difendersi da essa e si limitò a ricambiarne lo sguardo, troppo stanco per stupirsi. O forse aveva capito che non era un rapace qualunque quello che aveva dinnanzi.

«Sei un giovane tenace e coraggioso», l’aquila parlò con voce umana, gentilmente, con un tono roco che incuteva rispetto, «Non ti sei lasciato andare, hai continuato a perseverare e per questo ho deciso di premiarti. Ti aiuterò a uscire di qui».

Slen non si meravigliò di avere di fronte un’aquila gigante che parlava. Il primo pensiero che ebbe fu di non essere sulla sua isola natale, poi si domandò se forse non lo avrebbe fatto uscire in volo.

Il rapace parve leggergli nella mente. «Hai ragione, non sei su Aderan, ma io non posso farti uscire in volo. C’è una strada che devi percorrere per poter raggiungere la tua meta e io devo fartela seguire. Posso però dirti questo: l’uscita si trova dietro a una porta che è sempre in movimento, ma che è sempre nello stesso posto. Uscirai allo stesso modo del fiume, se capirai dov’è questa porta che non c’è». Detto ciò l’aquila spiegò le grandi ali e con un rapido battito si sollevò in volo, lasciando il ragazzo nuovamente solo.

«Ma… Non andartene, aspetta!» Slen allungò una mano come per trattenerla, ma ormai il rapace se n’era andato, lasciandogli solo una frase di cui non capiva il senso, un rompicapo per la sua stanca mente. Non aveva più forze per tentare ancora di scalare la parete e l’oscurità stava diffondendosi ovunque.

A passi lenti si avvicinò al fiume e lo seguì fino alla voragine. Vi guardò dentro ma non vide nulla, solo altra oscurità. ‘Puoi uscire come il fiume’ aveva detto l’aquila, ma quella non sembrava una possibile soluzione, sembrava più che altro un suicidio. Gli scalini che scendevano nell’acqua non parevano proseguire sottoterra e sembrava esserci solo il vuoto ad attenderlo nelle tenebre. Si voltò e guardò la cascata dall’altra parte della valle. Anche là c’erano degli scalini che scomparivano tra i flutti, quasi il sentiero uscisse da dietro la cascata, seguisse il fiume e poi continuasse a seguirlo anche nel suo salto nel vuoto.

D’improvviso Slen capì cosa intendeva l’aquila: la risposta al suo quesito era semplice e il sentiero non era affatto opera di una mente malata, ma aveva una sua ragione di essere. La porta sempre in movimento e sempre ferma poteva essere solo la cascata, lui doveva semplicemente seguire il sentiero oltre di essa e sarebbe uscito sottoterra come il fiume.

Quasi correndo raggiunse la cascata, ma quando fu lì si bloccò. L’acqua cadeva da una grande altezza, doveva avere una forza spaventosa: buttarsi là sotto era come buttarsi sotto una cascata di macigni, eppure non c’era modo per girarvi attorno. Mentre si domandava se non si fosse sbagliato, scese lentamente verso il greto.

Come per magia l’acqua iniziò a diminuire e infine cessò del tutto, rivelando una grande grotta buia. Slen scese nel letto ghiaioso del fiume, che era già asciutto ed entrò nell’antro. Subito l’acqua alle sue spalle riprese vita: ormai non poteva più tornare indietro.

All’interno della grotta l’oscurità era quasi palpabile, la poca luce che c’era all’esterno non riusciva a oltrepassare il muro d’acqua e solo attorno all’uscita vi era l’alone di una strana luce azzurra. Slen si trovava in una tenebra invalicabile che lo costringeva ad avanzare a passi lenti, misurati, saggiando con cautela l’ignoto terreno su cui si muoveva. Quando raggiunse una parete laterale sentì allentarsi parte della tensione e iniziò a procedere appoggiandosi ad essa. Sotto le sue dita la pietra appariva viscida e levigata e attraverso le mille venature della roccia l’acqua scorreva a terra rendendo il suolo scivoloso.

Poco dopo le sue mani incontrarono un oggetto di legno affisso al muro. Lo prese in mano e nel saggiarne le forme si sentì rincuorato capendo che si trattava di una torcia, ma la sua sicurezza si spense in un attimo, poiché non aveva nulla con cui accenderla. Non la gettò via subito, la tenne in mano ancora per qualche istante, fissandola senza vederla, riluttante ad abbandonare quell’oggetto così rassicurante seppure inutile. Questo fu sufficiente perché accadesse: con uno sfrigolio la fiaccola si accese illuminando una bassa galleria dalle pareti ricoperte di umido muschio e viscidi licheni che procedeva diritta nell’oscurità.

Sentendo il cuore scoppiargli, Slen si accorse che, se avesse fatto solo pochi passi ancora, sarebbe caduto in una fossa non molto profonda, ma sul cui fondo erano piantati pali appuntiti. I resti degli sfortunati caduti nella trappola se ne stavano appesi a quei pali, ossa bianche con attaccati pochi brandelli di carne imputridita, qualche lembo di stoffa marcia e un odore nauseante. Un brivido attraversò il ragazzo mentre camminava ai margini di quella macabra tomba, tenendosi ben stretto alla parete.

Lasciatosi quell’orrore alle spalle accelerò il passo, confidando che la luce della magica torcia gli avrebbe rivelato per tempo altre trappole.

Non aveva percorso che venti metri quando gli mancò il terreno da sotto i piedi e iniziò a scivolare lungo uno stretto tunnel. Maledisse la propria imprudenza e chiuse gli occhi cercando di prepararsi a un impatto che però non arrivò mai. Invece si sentì volare fuori e precipitare nel vuoto. Riaprì gli occhi solo quando qualcosa di enorme lo afferrò, cingendogli la vita.

La prima cosa che vide fu un artiglio, subito dopo si rese conto che il suo compagno era stretto attorno al suo busto. Il suo primo pensiero fu rivolto all’aquila, ma questo animale era molto, molto più grosso ed era simile a un rettile alato. Slen non aveva idea di che animale fosse, ma era certo che non fosse un drago. Riuscì a scorgerne il muso e vide che era appuntito e terminava con una protuberanza simile a un corno, la pelle squamosa era di un colore tra il grigio e il marroncino chiaro, mentre l’apertura alare era spaventosamente ampia. Gli artigli che lo trattenevano avrebbero potuto benissimo passarlo da parte a parte.

Mentre cercava di aggrapparsi ad uno di essi per evitare di riprendere la caduta se il mostro avesse deciso di mollarlo non poté evitare di sorridere chiedendosi cosa sarebbe stato meglio, se sfracellarsi al suolo o venire mangiato vivo. Cosa, quest’ultima, che sembrava abbastanza probabile.

«Afferra la mia mano, ragazzo». La voce giunse inattesa dal dorso della mostruosa creatura. Solo allora Slen si accorse che il rettile era cavalcato da qualcuno che gli stava tendendo una mano tanto magra e pallida da sembrare scheletrica.

Era sul punto di afferrarla quando si rese conto che davvero era ciò che sembrava. Inorridito e impaurito si ritrasse tentando di osservare meglio chi gli aveva parlato. In sella alla creatura c’era uno scheletro vestito con una corta tunica verde e dei pantaloni di pelle che si protendeva quanto più possibile verso di lui.

«Sbrigati!» Non vedendo altre possibilità, Slen si allungò fino ad afferrare la mano protesa. La sensazione che provò toccando quelle ossa lisce fu di un freddo raccapriccio e un brivido lo percorse per tutto il corpo.

Le ossa del braccio e della mano rimanevano unite tra loro, si muovevano come sotto l’azione di tendini e muscoli e l’impressione era di un arto dotato di una certa forza. Eppure non c’erano né carne, né tendini, né muscoli. Mentre veniva issato sul dorso del rettile riuscì a meravigliarsi di questo fatto incredibile.

«Non aver paura, ragazzo». Lo scheletro, di cui vedeva solo il retro del teschio, parlò con tono rassicurante, «È stata una fortuna per te che io stessi passando di qui con Pteli».

«S… Sì». Slen faticava a parlare, perché aveva la gola secca. Si era trovato a combattere con banditi e soldati delle più diverse schiette, e negli ultimi tre giorni aveva visto cose incredibili, ma mai gli era capitato un incontro tanto strano e spaventoso. Stava cavalcando un gigantesco rettile alato con uno scheletro… vivo.

«Voi del mondo esterno non siete abituati a parlare con persone come noi, vero?» Sembrava che lo scheletro volesse iniziare un discorso, mostrandosi cortese, ma Slen era troppo sconvolto per sapere cosa dire o fare.

«Ha… ragione… signore…» queste furono le uniche parole che riuscì a balbettare.

«Sei un tipo di poche parole, eh?». Il suo salvatore, se salvatore era, non sembrava volersi arrendere, «Io mi chiamo Skay, preferirei che mi chiamassi con il mio nome, signore non è un appellativo che mi piaccia molto».

«Sì… signore». Slen non riusciva a dire altro.

«Non signore, Skay!» ribadì lo scheletro ridendo e il giovane annuì, pur dubitando di riuscire a dimostrare confidenza a quella creatura.

Lo scheletro sembrava amichevole e Slen rifletté che, se avesse voluto ucciderlo, avrebbe semplicemente dovuto evitarsi la fatica di salvarlo. Certo, poteva anche essere una trappola, o quella creatura poteva avere altre idee in mente, ma Slen tentò di non pensarci.

Si guardò attorno. Erano in un’immensa grotta, che sembrava occupare la cavità di un’intera montagna, larga centinaia di metri e profonda altrettanto. Sopra di loro era troppo buio per poter vedere la volta, mentre ai lati della grotta le pareti si aprivano con numerose caverne dalle quali usciva la luce di quelli che sembravano essere dei fuochi. Quella luce debole e tremolante illuminava il fondo dell’abisso, riflessa dalle acque di un piccolo corso d’acqua. Laggiù in fondo non vi erano caverne illuminate e le pareti sembravano molto levigate, come se il fiumiciattolo s’ingrossasse regolarmente sommergendo la parte più bassa del baratro.

Quando spostò di nuovo lo sguardo sulle caverne laterali, vide che si stavano dirigendo verso una delle più grandi.

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