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  • Immagine del redattoreShirll Weirdrow

L'Ombra di Drago - Capitolo Terzo

Mentre il rettile alato atterrava su quella che sembrava una terrazza, Slen si guardò attorno curioso. Vi era un parapetto di legno che correva lungo quasi tutto il margine della terrazza, lasciando libero solo un breve tratto che costituiva l’ingresso per il rettile. Vi erano alcuni pali con delle cavezze per legare la cavalcatura e, più avanti, l’ingresso della grotta vera e propria. Sull’arcata d’ingresso erano stati scolpiti dei disegni, forse stemmi nobiliari, che il tempo aveva reso difficili da leggere.

Appena il rettile fu fermo al suolo, lo scheletro smontò dal suo dorso e invitò Slen a fare altrettanto, quindi legò l’animale a uno dei pali. Il ragazzo ora poteva vedere, accanto all’ingresso principale, una grotta più piccola, quasi una semplice tettoia accompagnata da una struttura in legno. Guardando meglio, notò all’interno di essa altri rettili alati e capì che si trattava delle stalle. In quel momento un rumore di passi proveniente dall’interno attirò la sua attenzione e un altro scheletro si precipitò correndo verso Skay.

«Signore, Skay… Devo parlarti, è urgente». A giudicare dalla sua agitazione ciò che doveva riferire era molto importante.

«Di che si tratta, mio buon Ven?» Skay pose la domanda con tranquillità, mentre finiva di legare l’animale.

«Si tratta della bambina elfa che è arrivata ieri».

Sul volto di Skay si dipinse un velo di preoccupazione. Slen mai avrebbe immaginato che un teschio potesse avere espressione. Eppure lo vide, vide il volto dello scheletro aggrottare la fronte, mentre si voltava verso l’altro con uno scatto improvviso. Ven si ritrasse leggermente, colto di sorpresa.

«Cose le è successo?»

«La febbre, signore. La febbre continua a salire e io non sapevo cosa fare…»

Dimenticandosi completamente di Slen, Skay si diresse verso l’interno della grotta, subito seguito dall’altro scheletro che in tutto il tempo aveva lanciato solo una fugace occhiata al giovane.

Slen osservò per un istante il rettile alato da cui era appena sceso e poi volse lo sguardo oltre il parapetto. Sotto di sé poteva scorgere altre terrazze come quella su cui si trovava, forse più piccole, ma comunque molto distanti da lui. Non era possibile raggiungerle in alcun modo, se avesse cercato di calarsi da quella parte l’unica cosa che lo avrebbe atteso era un salto di centinaia di metri e non era affatto convinto che anche questa volta la sua caduta sarebbe stata attutita magicamente. Con la coda dell’occhio vide i due scheletri che stavano scomparendo nella grotta e si affrettò a seguirli.

Il corridoio in cui si diressero, passato l’arco con gli stemmi, procedeva diritto verso il cuore della montagna, o più correttamente verso l’esterno, dal momento che il cuore della montagna sembrava essere completamente vuoto. Era illuminato solamente da alcune sporadiche torce infisse accanto a pesanti porte in legno che si incontravano a intervalli regolari.

La roccia era asciutta, non vi erano infiltrazioni come nel passaggio oltre la cascata. Le porte erano intarsiate con motivi ornamentali, gli stessi che aveva visto all’ingresso, ma qui erano più leggibili: si trattava di scudi ovali, troncati. Nella parte inferiore vi appariva sempre un rettile alato, mentre i disegni nella parte superiore variavano. Spesso erano corone accompagnate da altri simboli, come teschi e ossa, o ancora elementi della natura e armi.

I due scheletri scomparvero dietro una delle porte che portava inciso uno scudo non troncato che mostrava solo il rettile alato. Slen li seguì, curioso di scoprire dove fossero diretti. Si ritrovò così in una grande stanza illuminata solo da quattro torce e un piccolo fuoco che ardeva al centro di essa, in un buco scavato nel terreno. Il fumo usciva in parte da un grosso foro nella parete, ma per il resto si accumulava nella stanza, rendendo l’aria pesante. Gli occhi di Slen lacrimarono quando il ragazzo entrò, ma presto si abituarono al fumo e poté vedere che, accanto al fuoco, era stato approntato un rudimentale giaciglio fatto di coperte distese per terra. Su di esso era adagiata una bambina. Accanto a lei si era inginocchiato Skay e le stava bagnando la fronte con una pezza inumidita di acqua fresca. Ven era in piedi di fronte a Skay, in attesa di ricevere istruzioni.

Lentamente Slen si avvicinò al fuoco per vedere meglio la piccola. Aveva tratti caratteristici degli elfi: orecchie a punta che spuntavano tra le ciocche ricce, occhi chiusi, ma dal taglio a mandorla e un corpo dal volto e dalle membra sottili. I lunghi capelli rossi e ricciuti che incorniciavano la fronte sudata appartenevano a una stirpe in particolare, che viveva tra i boschi e per questo era definita silvana. A Slen ricordava una bambina che aveva conosciuto molto tempo prima, figlia di alcuni contadini sotto il cui tetto aveva trovato ospitalità in una notte di tempesta. Era rimasto da loro per un po’ di tempo, aiutandoli nei lavori dei campi, come ringraziamento per la loro ospitalità. Non era rimasto a lungo, ma abbastanza perché la piccola diventasse come una sorellina per lui. La contadinella però aveva le guance fitte di lentiggini, mentre la pelle dell’elfa era liscia e chiara.

Facendosi coraggio, il giovane umano chiese a Skay come mai la ragazzina si trovasse lì. «Le è forse capitato ciò che è capitato a me?»

«No». Skay scosse la testa, «Lei non è caduta dal cielo come te. Non so perché sia venuta qui, ma conosceva la strada che conduce alla caverna e stava cercando proprio me. Quando è arrivata era stremata, ha chiesto di vedermi poi è svenuta». Lo scheletro fece una pausa, mentre cambiava nuovamente la pezza bagnata sulla fronte della piccola. Sembrava sinceramente preoccupato. «Se non si riprende prima dell’alba, non credo ce la farà a sopravvivere», aggiunse scuotendo il capo.

Slen lo guardò senza dire nulla, iniziando a sua volta ad essere preoccupato per la piccola.

Nonostante la bizzarria della situazione in cui si trovava, nonostante tutto ciò che gli stava capitando, non riusciva a sentirsi in pericolo. Lo scheletro che aveva davanti si stava prendendo così amorevolmente cura della bimba, che al giovane sembrava impossibile non fidarsi di lui o temerlo e addirittura provava il desiderio di aiutarlo. Era certo possibile che fosse preoccupato per la bambina solo perché era un’abitante della Terra dei Sogni come lui e che, se si fosse trattato di Slen, per il giovane umano sarebbe stato riservato un trattamento ben diverso, eppure Slen non riusciva a crederci: Skay, come Rune, sembrava buono.

«Quante ore mancano all’alba?», chiese infine.

«Manca ancora molto, il sole è appena tramontato, ma per lei un’intera notte potrebbe essere troppo poco tempo». Skay alzò lo sguardo su Slen, «Sembra che tu ora sia un po’ meno spaventato, vero ragazzo? Ne sono contento, non voglio esserti nemico, non ho nulla contro gli umani sempre che non mi attacchino… Ma tu non sembri avere cattive intenzioni, quindi sei il benvenuto. Mi dispiace non poterti offrire un’accoglienza migliore, ma ho un’emergenza che per il momento mi tiene occupato».

«Non preoccupatevi per me, prendetevi cura della bambina. Anzi, se ci fosse qualcosa che posso fare…»

Lo scheletro aggrottò la fronte, «Tanto per cominciare potresti smettere di darmi del ‘voi’. È una cosa che non ho mai amato, se continui così potresti farmi arrabbiare!» Skay accompagnò le proprie parole con un sorriso e i denti del suo teschio si distesero in modo bizzarro.

Slen ricambiò il sorriso, turbato da quelle espressioni così vive che continuavano a comparire sul volto osseo che avrebbe dovuto essere rigido e freddo. Aveva sentito parlare di zombie e di altri morti viventi a cui gli stregoni della Terra dei Sogni potevano rendere la vita, eppure non avrebbe mai immaginato qualcosa di simile a Skay.

Indicando con un cenno del capo l’altro scheletro, Skay stava continuando a parlare cordialmente. «C’è già Ven che si preoccupa di riverirmi e servirmi in ogni momento, non ho bisogno che lo faccia anche tu».

Sentendo queste parole, anche Ven mostrò espressioni incredibilmente umane: mosse la bocca come per balbettare qualcosa, ma non osò dire nulla, distogliendo invece lo sguardo con atteggiamento un po’ tra l’offeso e il rassegnato. Non sembrava per niente d’accordo con Skay, ma anche ben conscio, dopo lunghe discussioni, dell’inutilità di replicare qualsiasi cosa.

«Tu sai già il mio nome», Skay non sembrava curarsi di Ven, «usa quello quando ti rivolgi a me, ne sarei molto felice. E poi, se vuoi farmi cosa ancora più gradita, potresti dirmi come ti chiami».

Dopo che Slen si fu presentato, Skay gli chiese di accudire la bambina per un po’, mentre lui andava a consultare alcuni libri, in cerca di un rimedio per abbassare la febbre o per capire cosa avesse la piccola. Slen accettò volentieri nonostante fosse molto stanco e Skay lasciò la stanza seguito da Ven.

Rimasto solo, il ragazzo appoggiò la propria spada in un angolo, vicino a quelle che sembravano panche in pietra. Ora si accorse che queste panche erano tutto attorno alla stanza, correvano lungo i muri ed erano rivolte verso il fuoco dando al locale l’aspetto di quelle piazze dei piccoli villaggi di contadini dove, la sera delle feste, la gente si riuniva attorno al fuoco per festeggiare e stare insieme, o a volte per raccontarsi delle storie. Solo che qui si trovava all’interno di una grotta e per quanto ne sapeva il ragazzo, quella era la casa di Skay. Si chiese quale ne fosse il vero impiego e da lì provò a immaginare come potesse essere la vita di uno scheletro supponendo che fosse incredibilmente diversa da quella di un umano.

Tutto quanto gli stava capitando in quei giorni, per un certo verso, era estremamente affascinante. Aveva l’incredibile opportunità di conoscere quel mondo, quelle creature, di persona, e non solamente attraverso le storie dei vecchi. Una certa curiosità stava nascendo dentro di lui, mista a un leggero senso di inquietudine: ora voleva sapere di più di quel mondo in cui viveva, ma allo stesso tempo sentiva di temere ciò che avrebbe potuto scoprire.

In quel momento la bambina si mosse e la pezza le cadde dalla fronte. Slen si affrettò a raccoglierla e quando la immerse nell’acqua, trovò che questa era ormai calda. Guardandosi attorno vide due secchi in un angolo, vicino alle panche e lontano dal calore del fuoco. Slen svuotò la bacinella in quello dove l’acqua era più calda e la riempì di quella fresca, poi si sedette accanto alla piccola elfa e le inumidì la fronte. La guardò con tristezza pregando perché superasse la notte.

***

Era passato molto tempo da quando Skay aveva lasciato la stanza, e Slen iniziava ad essere stanco. Aveva sonno e ogni tanto faticava a tenere gli occhi aperti. Adesso anche il suo stomaco cominciava a lamentarsi per la fame, era da molto che non mangiava e questo lo rendeva ancora più debole. Se non si fosse riposato e ristorato al più presto correva il rischio di ammalarsi anche lui. Avrebbe voluto sdraiarsi e dormire, la tentazione era forte, ma si costrinse a rimanere sveglio, non volendo lasciare la piccola senza assistenza.

Ogni tanto Ven tornava portando altra legna per il fuoco o acqua fresca. Il cavaliere avrebbe potuto chiedere a lui di sostituirlo per un po’, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Ven non era come Skay, spesso gli lanciava occhiate diffidenti e sospettose e non gli rivolgeva mai la parola. In sua presenza, Slen si sentiva un ospite sgradito.

Lo scheletro aveva appena portato un’altra fascina di legna e se n’era andato subito. Guardandolo sparire oltre la porta, Slen sospirò rassegato.

Con un gesto ormai divenuto meccanico cambiò per l’ennesima volta la pezza sulla fronte della piccola elfa. Le sue condizioni sembravano peggiorare a vista d’occhio: la febbre era salita ancora, a volte si agitava e gemeva, sembrava a un passo dal delirio. Mentre strizzava il panno bagnato, le lanciò un’occhiata addolorata. Lei in quel momento girò la testa e tra i capelli il ragazzo vide qualcosa di scuro attaccato al suo collo, quasi verso la nuca, in un posto difficile da notare. Poteva essere un’ombra, o poteva essere qualcos’altro: nel dubbio decise di controllare meglio e così scoprì che si trattava di un piccolo, minuscolo dardo. Forse non era nulla d’importante, ma poteva anche essere la causa del malessere della bambina.

Era indeciso su cosa fare, non sapeva se uscire a cercare Skay o aspettare che tornasse Ven, ma Ven era appena stato lì e sarebbe trascorso molto tempo prima che portasse altra legna per il fuoco, tempo che poteva essere prezioso per la bambina. Quasi subito si alzò per cercare i due scheletri, indugiò solamente quando dovette scegliere la direzione in cui incamminarsi.

Il corridoio procedeva diritto, apparentemente uguale sia alla sua destra che alla sua sinistra e lui non ricordava da quale direzione fosse venuto. Sperando che non procedesse all’infinito, s’incamminò alla propria destra inoltrandosi nella semi oscurità.

Iniziò subito ad aprire tutte le porte che incontrava, ma dietro nessuna trovò i suoi due ospiti. Alcune erano chiuse, altre si aprivano su stanze poveramente arredate, in cui raramente vi erano accessi ad altre stanze ancora più interne e solo un paio di questi erano accessibili. Slen camminò per parecchio tempo e mentre avanzava le torce si facevano sempre più rade, se prima ce n’erano state due per ogni porta, ora ce n’era solo una e spesso era spenta. Infine anche le porte scomparvero e davanti a sé il giovane ebbe solo oscurità. Fu così che capì di avere preso la direzione sbagliata.

Stava per tornare in fretta sui propri passi, quando udì un rumore provenire dall’oscurità. Si fermò di scatto, tirando l’orecchio per cercare di capire cosa fosse stato. Si pentì di non essersi portato dietro una delle torce, ciò nonostante si diresse a tentoni verso il punto in cui aveva sentito il rumore, spinto dalla curiosità.

Non aveva fatto che pochi passi, quando finì addosso a una ragnatela, ma non una ragnatela qualsiasi, questa era particolarmente robusta e appiccicosa e con sgomento Slen si rese conto di non potersi muovere. Tentò disperatamente di liberarsi, ma più si agitava e più rimaneva impigliato. Si calmò solo quando fu certo che ogni sforzo per strapparla era inutile.

Sopprimendo il panico che l’aveva assalito, cercò di capire come liberarsi. Aveva lasciato la spada nella stanza della bambina, ma non avrebbe comunque potuto usarla, perché non riusciva a staccare nemmeno un braccio dalla tela. Mentre ci provava, gli parve che qualcosa muovesse i fili di seta dall’alto. Un brutto presentimento si fece strada nel suo cuore, mentre alzava lo sguardo verso la volta della grotta. Nell’oscurità si intravedeva la sagoma di un enorme ragno, grosso forse quanto lui, che si stava avvicinando velocemente. Non poteva distinguerlo chiaramente, ma era sicuro che ci fosse. Poi vide brillare i suoi occhi rossi e allora ricominciò ad agitarsi e a tirare la tela, cercando vanamente di romperla. Si sentiva un insetto in trappola e in effetti lo era.

«Aiuto!», urlò, «Skay, aiuto!»

Dei passi riecheggiarono nella grotta e una voce urlò parole secche in una strana lingua. «Kraha! Ia da kaa!»

Con la coda dell’occhio si rese conto che era Skay che finalmente giungeva in suo soccorso.

Il ragno si fermò un attimo, poi si voltò e se ne tornò nell’oscurità. Lo scheletro raggiunse Slen e con un pugnale lo aiutò a liberarsi. «Tutto bene, ragazzo?»

Slen tentò di sorridere mentre si tirava via di dosso gli ultimi fili della ragnatela. «Sì, credo di sì… Non avevo mai visto un ragno simile». Si sentiva un po’ sciocco a essere finito in quella trappola e temeva anche che per parecchio tempo avrebbe avuto una certa paura dei ragni.

«È il mio guardiano». Skay lo aspettava pazientemente, «Ce ne sono molti anche nelle altre grotte. Questi cunicoli non vengono più usati da molto tempo, la maggior parte è franata, ma alcuni danno ancora sull’esterno. Non amiamo ricevere visite inattese, così teniamo questi ragni a guardia dei passaggi. Sono molto efficienti. Hai rischiato grosso, con la tua fuga».

«No…» Slen alzò lo sguardo su Skay, interdetto. «Io non stavo fuggendo… Vi stavo cercando, ma ho sbagliato strada e…»

«Non mentire». Skay sembrava avvilito più che arrabbiato. «Non ho mai amato le menzogne, preferisco la sincerità anche se a volte può essere dura. Ero tornato dalla bambina e quando ho visto che non eri più con lei, ho capito che non ti fidavi di me e avevi preferito cercare di scappare».

«No, io…» Slen tentò ancora di spiegare l’equivoco, ma lo scheletro non lo lasciò parlare.

«Non scusarti». Sul suo teschio si era disegnato un sorriso rassegnato, «Ti posso capire e perdonare se ammetti che voi umani non potete amare noi esseri di Tarl-e-Sog. In più, so bene che uno scheletro non è una compagnia gradevole. Noi stessi non amiamo più di tanto la compagnia di quelli che vivono alla luce del sole, altrimenti non ci saremmo isolati qua dentro. Quindi non ti preoccupare, ti condurrò fuori di qui non appena mi sarà possibile, se vorrai fidarti di me».

Mentre parlava, Slen lo aveva ascoltato sgomento. Skay gli aveva salvato la vita già due volte, era stato gentile con lui e non sembrava affatto un nemico. Sentiva di potersi fidare dello scheletro, ma sembrava che l’altro avesse già deciso cosa lui pensasse, senza nemmeno dargli il tempo di parlare, e questo, al giovane avventuriero, non piaceva. «Io mi fido!», sbottò, «Come potrei non fidarmi? Mi hai salvato la vita già due volte e non mi sembra che tu, finora, abbia cercato di farmi del male… Forse non tutti gli esseri della Terra dei Sogni sono malvagi, forse siamo noi umani che ci siamo sempre sbagliati. Ora non sono più sicuro di niente, ma non è il momento di pensarci. C’è una bambina in fin di vita e sembra che anche a te stia a cuore la sua salvezza, quindi dobbiamo preoccuparci di lei. Se poi vorrai attaccarmi, ci penserò dopo. Ora siamo dalla stessa parte!»

Slen aveva parlato con tale foga che lo scheletro era rimasto attonito. Skay dovette ammettere a se stesso di essere, molto probabilmente, più prevenuto del giovane umano che gli stava di fronte con il volto in fiamme. Aveva dato per scontato che il ragazzo, se non si fosse rivelato pericoloso, doveva per forza essere un debole, dal cuore codardo. Invece era coraggioso e, a quanto pareva, anche leale e dal cuore nobile. «Perché mi cercavi?»

Slen abbassò lo sguardo, imbarazzato. Si pentì di essersi lasciato condurre dall’ira e di aver parlato in quel modo, ma quando qualcuno tentava di decidere come lui dovesse pensare, perdeva il controllo. «Dovevo farti vedere una cosa», disse con tono più calmo, «Non sapevo quando saresti tornato e, pensando che potesse essere urgente, ho creduto fosse meglio venire a cercarti».

Skay annuì col capo, «Allora andiamo».

Mentre camminavano il ragazzo si chiese come la bambina avesse raggiunto quel posto superando i ragni a guardia dei cunicoli ancora accessibili. Skay gli spiegò che c’era un passaggio segreto. Pochi lo conoscevano e per accedervi era necessario possedere alcune informazioni e conoscere alcuni segreti. Evidentemente la bambina aveva le conoscenze necessarie, ma neppure lui sapeva come le avesse ottenute.

Quando giunsero da lei, Slen mostrò a Skay cosa aveva trovato e lui si mise subito al lavoro, estraendo con molta cautela il piccolo dardo dal collo della bambina. Lo esaminò con attenzione, poi lo appoggiò a terra, di fianco alla ciotola dell’acqua, dove aveva posato anche altre bottigliette contenenti dei medicinali. «Hai ragione, ragazzo mio», commentò, «è questo la causa della febbre della nostra piccola amica. È un dardo avvelenato. Fortunatamente il veleno doveva essere poco o comunque non ha agito come avrebbe dovuto. Se non fosse stato così, la piccola sarebbe morta quasi subito. È stata fortunata, il veleno che usano gli elfi oscuri non è roba da poco».

«Gli elfi oscuri?» Slen aggrottò un sopracciglio sentendo quel nome per la prima volta. «Ti riferisci forse agli elfi neri?» Suo padre gli aveva parlato spesso delle varie razze elfiche, ma gli sembrava che non avesse mai usato quel nome.

«Non esattamente». Skay stava vagliando le boccette che aveva per terra, «Gli elfi oscuri non sono più considerati elfi neri da quando hanno deciso di unirsi al Sire».

«Al… Sire?» Anche questo nome giungeva nuovo al giovane. «Non l’ho mai sentito nominare, chi è?»

Skay chiese a Ven di andare a procurargli delle altre erbe e il necessario per preparare un infuso, poi si voltò verso il giovane. «Mm, mi ero dimenticato che voi umani non ne sapete molto su di lui. Anche se vi vantate di conoscerci molto bene, non sapete quasi nulla sulla nostra storia e su come è fatta Tarl-e-Sog». Slen arrossì mentre Skay lo fissava con un sorriso allusivo, «Vorrà dire che più tardi ti racconterò qualche cosa. Ma non ora. Prima devo prendermi cura della bambina».

Slen annuì stancamente. Era curioso di ascoltare ciò che Skay aveva da raccontargli, di venire a sapere qualcosa di più sulla Terra dei Sogni. Lo scheletro aveva ragione, lui e tutta la sua gente in generale, sembrava sapessero molto poco su come erano veramente gli abitanti di quel mondo.

Ven tornò con ciò che gli era stato chiesto e sotto gli occhi del ragazzo, Skay iniziò a preparare un impasto di erbe.

«Posso fare qualcosa?»

«No, tu hai già fatto abbastanza. Riposati un po’, hai un aspetto trascurato, sembra che non dormi da parecchio».

«Hai ragione». Quando lo scheletro glielo fece notare, il ragazzo si accorse di essere effettivamente molto stanco. «Non mi sono curato molto, negli ultimi giorni. Ho dormito poco e mangiato ancora meno».

Con un sorriso, lo scheletro lo invitò a sdraiarsi su delle coperte che Ven aveva preparato per lui, in un angolo. Il giovane, tentando inutilmente di ricambiare il sorriso, vi si adagiò e in poco tempo fu profondamente addormentato.

Gli sembrò che fossero passati solo pochi istanti, quando fu svegliato da una voce. Lentamente aprì gli occhi assonnati e davanti a sé vide Ven con in mano un vassoio carico delle più invitanti leccornie che avesse mai visto. O almeno questo gli parvero i piatti che lo scheletro porgeva. Nonostante fosse quasi a digiuno da diversi giorni e il suo stomaco, allettato dal buon odore di carne che proveniva dal vassoio, avesse iniziato a brontolare, Slen riuscì a ringraziare gentilmente e a chiedere informazioni sulla bambina.

«Sta molto meglio, adesso», rispose con calma lo scheletro, mentre appoggiava il vassoio su una delle panche in pietra, «Il signore l’ha curata e la febbre è scomparsa del tutto. Adesso sta riposando».

In quel momento giunse anche Skay che congedò Ven e si sedette accanto al giovane umano. «Ti senti meglio, questa mattina?»

Slen annuì, mentre iniziava ad assaggiare con gusto ciò che gli era stato offerto. «Sì, ho riposato e molto probabilmente starò ancora meglio quando avrò finito di mangiare». Era strana la carne che stava guastando, un po’ dura e con un sapore particolare che non aveva mai provato prima. Anche la verdura era nuova per lui, ma trovò tutto molto buono, forse in parte per la fame che aveva.

«È carne di pterodattilo», rispose Skay quando il ragazzo gli chiese cosa stesse mangiando, «e quelle sono alghe che crescono sul fondo del fiume. È un cibo particolare, spero ti piaccia. Purtroppo non abbiamo molta scelta, perché non abbiamo bisogno di nutrirci».

Il ragazzo ringraziò ancora, poi si informò sugli pterodattili e venne a sapere che erano i rettili alati che gli scheletri usavano come cavalcature. «Temo che la loro carne possa sembrarti un po’ coriacea, ma è tutto ciò che ti posso offrire.

«Ieri sera ho promesso di parlarti un po’ di Tarl-e-Sog e del Sire e, se non ti disturba, lo farò adesso mentre finisci di mangiare».

Slen era impaziente di ascoltare il racconto dello scheletro, lo trovava una buona compagnia e sembrava che avesse molto da insegnargli, così Skay iniziò a narrare.

«La mia storia dovrà incominciare dall’inizio dei tempi, ma non temere, cercherò di essere il più breve possibile. Ti dirò solo l’essenziale, anche perché la bambina elfa potrebbe svegliarsi tra poco e allora dovrò andare da lei.

«Devi sapere che Tarl-e-Sog fu creato come un mondo di pace. All’inizio dei tempi non vi erano né odio né dolore, non c’era nessuna guerra o carestia, non c’erano banditi né assassini. In poche parole, su Tarl-e-Sog non esisteva il Male, in nessuna delle sue tante forme. Purtroppo però le cose belle non durano mai a lungo. Io non so perché il Creatore abbia lasciato, o deciso, che ciò accadesse. Forse voleva mettere alla prova le creature che aveva creato e vedere se erano degne della loro esistenza. Forse voleva che provassimo anche il dolore, perché senza sapere cos’è l’assenza della felicità, non si può godere della sua presenza. Forse semplicemente perché neanche lui è perfetto e può commettere degli errori come tutti. Io non lo so e forse neppure lui lo sa.

«Comunque un giorno anche Tarl-e-Sog conobbe il Male. Venne al mondo insieme a un bambino che ne racchiudeva dentro di sé il seme. Il bambino si chiamava Nakir ed era molto ambizioso. Amava essere viziato e coccolato, si divertiva a vedere sua madre e le altre persone che lo soddisfacevano in ogni sua richiesta, ci provava gusto. Ogni giorno era più esigente e la madre non sapeva dirgli di no. Crescendo non perse questo suo gusto perverso nell’essere servito e riverito, anzi, voleva che tutti fossero ai suoi ordini.

«Per ottenere questo, decise che sarebbe divenuto il signore e padrone di questo mondo. Studiò le arti magiche, nessun mago è mai riuscito a eguagliare i suoi poteri. Usò la magia per fini malvagi e fu forse grazie a ciò che riuscì a ottenere anche l’immortalità. Non impiegò molto tempo per raggiungere i suoi fini. Divenne il padrone di tutta Tarl-e-Sog e dei suoi abitanti, era temuto da tutti. Temuto e odiato. Fu un padrone crudele. In quel tempo iniziò a farsi chiamare Sire e questo appellativo gli è rimasto fino ad ora, mentre il suo vero nome è sconosciuto ai più.

«Furono molti quelli che, per avere privilegi e una vita più facile, per non essere gli ultimi degli schiavi, lo seguirono in tutto, divenendo malvagi quasi quanto lui. Per non soccombere, chi viveva in quei tempi era costretto a divenire spietato quanto o più dei propri aguzzini, combattendo il male con il male. Rubare e uccidere erano necessità, bisognava appropriarsi di ciò di cui si aveva bisogno con la forza, altrimenti era quasi impossibile continuare a vivere. Così il male si diffuse velocemente su tutto il mondo e da allora non se ne è mai andato completamente. In alcune razze ha messo radici molto più profonde che in altre, per esempio negli elfi neri di cui avevamo parlato. Molti di loro si ritirarono al seguito del Sire, quando fu sconfitto e questi sono conosciuti da allora con il nome dispregiativo di elfi oscuri.

«Furono anni duri, quelli. Il Creatore sembrava aver abbandonato le sue creature, Nakir era tanto più felice quanto più i suoi sudditi soffrivano e nessuno era in grado di affrontarlo».

Per un attimo Skay interruppe il suo racconto, guardando negli occhi il suo giovane ascoltatore. «Forse tu penserai che questa non sia nulla di più di una semplice leggenda, ma ti sbagli. È andato tutto esattamente così, come te lo racconto. A me è stato raccontato da una persona che visse in quegli anni e che conobbe di persona il Sire e forse anche il Creatore stesso».

«Aspetta un attimo». Slen ora non seguiva più tanto bene lo scheletro. «Credevo che ciò che mi stavi raccontando fosse avvenuto quando questo mondo era appena nato, ma non credevo che la Terra dei Sogni fosse così giovane…»

Skay sorrise, «Infatti non lo è. Anzi, forse è molto più vecchia di quanto tu non possa immaginare».

Slen era confuso, sapeva che certe razze della Terra dei Sogni erano molto longeve, ma credeva che potesse trattarsi al massimo di qualche centinaio di anni, quindi non riusciva a capire come poteva, Skay, conoscere una persona che era vissuta all’alba dei tempi. Provò ad immaginare che l’avesse conosciuta quando lui era molto giovane e lei molto vecchia, ma era ugualmente un tempo troppo breve.

«La persona di cui parlo è molto speciale, so che voi umani avete sempre faticato a concepire la sua esistenza. Il suo nome è Rune ed è…»

«Rune!» Udendo quel nome, Slen ripensò subito alla ragazza che aveva conosciuto nella Foresta della Luna. Si era ripromesso di chiedere informazioni su di lei allo scheletro, prima di lasciarlo, ma, sentendone pronunciare il nome, aveva fatto un sobbalzo che aveva attirato l’attenzione di Skay.

«La conosci già, forse?» Lo scheletro ora sembrava chiaramente interessato.

«No». Slen scosse la testa, improvvisamente rattristato. «Però qualche giorno fa ho conosciuto una ragazza con questo stesso nome. Credo abbia tradito la mia fiducia e quella dei miei compagni».

Il ragazzo non avrebbe voluto raccontare ciò che gli era accaduto, ma ormai il racconto di Skay era stato interrotto e, prima di riprenderlo, lo scheletro voleva ad ogni costo sapere cosa aveva condotto il giovane umano lì in quella grotta.

Così Slen gli raccontò di aver lasciato la sua città insieme alla sua amata e al fratello di lei, disse come si erano trovati nella Foresta della Luna e come la ragazza di nome Rune li avesse salvati, raccontò della valle in cui si era risvegliato e di come ne era uscito, per cadere poi in quella trappola ed essere salvato da Skay. Quando ebbe finito il racconto, Skay annuì pensieroso.

«Come pensavo non sei una persona come le altre», commentò, «Potrebbe esserci qualcosa di grande che ti attende». Slen lo guardò interrogativamente, mentre lo scheletro continuava a parlare, «Quella in cui ti sei svegliato è la valle di Otad, ma è conosciuta anche come la ‘Valle della Prova’. Ci sono vie segrete che noi usiamo per raggiungerla, arrivarvi e uscirne fa parte di un rito, si tratta di prove per valutare il valore di un individuo e per decidere chi sia degno di compiere grandi imprese. È raro che vi giunga qualcuno senza essere a conoscenza di ciò che sta accadendo.

«Ma ci sono molte cose strane nel tuo caso. Per esempio, la forza che ti ha salvato ogni volta che precipitavi: è la prima volta che ne sento parlare, molti giovani sono morti nel tentativo di scalare quelle pareti. Per quanto riguarda la torcia, so che ce n’è sempre una all’ingresso, ma a quanto mi risulta, dev’essere accesa come una torcia qualsiasi. E il fatto che io stessi passando proprio di là mentre tu precipitavi, non può essere solo una coincidenza. Qualcuno ti ha protetto e questo qualcuno potrebbe essere l’aquila che hai incontrato. Non ci sono aquile, né magiche né comuni, nella valle di Otad».

Lo scheletro si interruppe, fissando il giovane umano, poi scosse il capo. «Ma forse è stato un caso che tu capitassi lì, uno scherzo della Foresta. A volte può capitare».

Il ragazzo lo aveva ascoltato stupito e incredulo. «Ad ogni modo, qualunque sia il motivo per cui sono capitato in quella valle, credi che i miei amici siano salvi?»

«Sì». Skay sorrise rassicurante, «Molto probabilmente sono al sicuro con Rune, lei si starà prendendo cura di loro. E quando la mia piccola ospite si sarà ripresa, vedrò quello che posso fare per portarti da lei».

Slen lo ringraziò cordialmente, a quanto pareva aveva trovato un amico. «Continua la tua storia,» lo esortò, «prima che la bambina si svegli, vorrei sapere come è stato sconfitto il Sire».

«È stata Rune, a sconfiggerlo».

«La stessa che ti ha raccontato tutta la storia?» chiese il ragazzo, stupito, ma quando lo scheletro rispose alla sua domanda sgranò gli occhi incredulo.

«Sì, la stessa che mi ha raccontato la storia dopo averla vissuta in prima persona. E la stessa che hai conosciuto tu l’altra notte».

Slen non sapeva se sentirsi preso in giro, sconvolto o confuso. «Come possono essere la stessa persona? La ragazza che ho conosciuto non sembrava essere molto più vecchia di me, mentre quella che ha affrontato il Sire dovrebbe avere qualche migliaio di anni…»

«Esatto», confermò Skay. «Rune non è una ragazza normale. Anche lei è immortale come il Sire, ma a differenza di lui, la vita di Rune è indissolubilmente legata a quella di questo mondo. Rune vivrà finché Tarl-e-Sog continuerà a esistere e viceversa, se Rune dovesse morire, anche Tarl-e-Sog cesserebbe di esistere. È per questo che il Sire esita ad attaccare, non può sconfiggere definitivamente Rune che è il cuore e la fonte di vita di questo mondo. Se dovesse ucciderla, perderebbe tutto ciò che vuole conquistare e molto probabilmente anche la vita stessa».

Slen era sconvolto. Per lui era inconcepibile che l’esistenza di un intero mondo fosse legata alla vita di una sola ragazza e che questa, eternamente giovane, vivesse ormai da migliaia di anni.

«Lo so che è difficile da comprendere, ma è così». Skay parlò di nuovo dopo una pausa in cui aveva studiato la reazione del ragazzo. «Se il Sire è l’incarnazione del male, Rune è quella del bene. Puoi fidarti di lei. Purtroppo la sua bontà l’ha spinta a risparmiare Nakir, non ha voluto ucciderlo e si è limitata a esiliarlo in una zona al centro di Tarl-e-Sog, circondata da alte montagne, dove egli vive tuttora. Con lui ha esiliato anche gran parte del Male, ma un po’ ne è rimasto ancora nei cuori degli abitanti di questo mondo. In alcuni di più che in altri, mentre alcune razze ne sembrano immuni. Ora non esiste più il Bene assoluto o il Male assoluto, ma ognuno dei due vive insieme all’altro. Non si può dire chi siano i buoni e chi i cattivi solo guardandoli, giudicandoli dalla razza o dalla stirpe, perché ognuno può scegliere da che parte schierarsi e la maggior parte sta da tutte e due le parti e da nessuna delle due senza neanche saperlo.

«Per quanto riguarda il Sire, continua a tornare dallo Iltas dove è esiliato, non ha ancora rinunciato al suo sogno di diventare padrone di Tarl-e-Sog. Temo che sia tornato ancora una volta e abbia attaccato la foresta dove viveva la bambina», lo scheletro concluse la storia con un tono amareggiato.

Slen non aveva ascoltato più di tanto le sue ultime parole, distratto dal pensiero di Rune. C’erano molte cose che avrebbe voluto chiedere sul suo conto, ma proprio in quel momento un gemito si alzò dal giaciglio accanto al fuoco. La bambina si stava svegliando e non c’era più tempo per raccontare storie.

Skay andò da lei e le accarezzò la fronte, scostandole i riccioli rossi dagli occhi. Quando lei vide davanti a sé lo scheletro, fu intimorita e tentò di ritrarsi, ma era troppo debole e ricadde subito indietro.

«Stai calma, piccola». La voce di Skay era incredibilmente dolce, «Non eri forse venuta a cercare me?»

La bambina sembrò tranquillizzarsi un po’, mentre si sporgeva in avanti scrutando lo scheletro in modo sospetto. «Voi siete Skay?», chiese. La sua voce era debole e incerta.

Lo scheletro annuì, accarezzandole una guancia in modo rassicurante. Le chiese come si sentisse, poi si informò su cosa le fosse accaduto e perché lo stesse cercando. Slen ascoltò la sua storia in silenzio, rimanendo in disparte.

La bambina disse di chiamarsi Kia. Era la principessa degli elfi dei boschi ed era riuscita a scappare per miracolo a un attacco di elfi oscuri che avevano assalito la foresta popolata dagli elfi silvani. Si era trattato di un attacco improvviso e in massa e non c’era stato modo di fronteggiare gli avversari. Gli elfi silvani avevano fatto tutto il possibile, ma poi Sion, la loro regina e sorella maggiore di Kia, era stata catturata. I silvani avevano dovuto arrendersi, ma Kia, insieme ad altri, era fuggita. Sion, quando aveva visto che le sue forze non erano sufficienti per proteggere la propria gente, le aveva dato l’incarico di raggiungere Skay e i Morti di Ragot, perché erano gli unici abbastanza vicini da poter portare loro aiuto, ma Kia non aveva fatto in tempo. Era partita con una piccola scorta, ma erano stati raggiunti molto presto da un altro elfo che aveva portato loro la notizia della cattura della regina. Purtroppo con sé aveva portato anche un gruppetto di oscuri. La scorta di Kia l’aveva difesa uccidendo gli inseguitori, ma solo Kia si era salvata ed era riuscita a giungere al monte Ragot. Non ricordava neppure come avesse fatto.

Mentre parlava a volte si fermava singhiozzando. Quando aveva raccontato della cattura di sua sorella era scoppiata in lacrime. Aveva visto molta gente morire, il suo regno in pochi giorni era stato devastato, lei stessa era distrutta. Quando ebbe finito la propria storia, aveva gli occhi gonfi. Skay le mise un braccio attorno alle spalle, cercando di confortarla e di farle forza.

«Fatti coraggio», le disse, «Troveremo un modo per salvare tua sorella. Adesso mangerai qualcosa e quando ti sarai rimessa in forze penseremo al da farsi».

Kia annuì e in quel momento, con la coda dell’occhio si accorse per la prima volta della presenza di Slen. Sobbalzò sorpresa e mentre lo studiava con occhi carichi di sospetto chiese allo scheletro chi fosse.

«Si chiama Slen. Non aver paura di lui, è un amico. Sta cercando Rune».

«Rune?» Kia alzò lo sguardo verso lo scheletro, «Forse lei potrebbe aiutarci, lei potrebbe convincere gli elfi oscuri a liberare Sion…»

Skay alzò lo sguardo su Slen, poi guardò nuovamente la bambina. Era quasi sicuro che dietro all’attacco degli elfi oscuri ci fosse il Sire, anche se non ne sapeva ancora il motivo. Se era così, Rune non avrebbe potuto fare molto, ma se si fosse recato da lei per accompagnare il giovane umano, portare anche la bambina non faceva differenza. Molto probabilmente Rune sapeva già cosa era accaduto, però era una strana coincidenza che Slen e Kia fossero giunti da lui insieme. Iniziava a sospettare una volta di più che qualcosa di grande o di terribile stava per accadere. Posò il suo sguardo vuoto negli occhi di Kia, che aspettava speranzosa.

«Sì, forse Rune potrà fare qualcosa. Appena sarai in forze ci metteremo in viaggio».

«No!» Kia si aggrappò alla sua casacca, «Non possiamo aspettare. Dobbiamo partire subito!»

Lo scheletro sembrava incerto e Slen, osservandolo, immaginò che fosse preoccupato per la salute della piccola, ma anche dall’urgenza di portare aiuto agli elfi. Alla fine Skay acconsentì a partire il giorno seguente, mandò Ven a prendere qualcosa da mangiare per Kia e poi si rivolse a Slen per iniziare i preparativi per il viaggio.

Per prima cosa gli propose di cavalcare uno pterodattilo. Spiegò che volando il viaggio non sarebbe stato lungo, un paio di giorni, forse tre al massimo. Anche Slen si rendeva conto che a piedi ci sarebbe voluto troppo tempo e loro avevano fretta, così accettò la proposta.

Prima di lasciare la stanza Skay si avvicinò a Kia che si era alzata in piedi e lo stava fissando, come se volesse parlargli, ma non ne trovasse il coraggio. Le mise una mano sulla spalla e le parlò dolcemente: «Stai tranquilla, salveremo tua sorella e la vostra gente».

«Grazie», sussurrò lei, poi lo scheletro si voltò e li lasciò soli.

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